Gio. Mar 23rd, 2023

Pubblico per gentile concessione dell’Autore, Gianluca Di Feo.

Le pendici dell’Himalaya di notte appaiono ancora più maestose. La luna si specchia nella neve di una primavera che tarda a scaldarsi, riflettendo raggi argentati. Il caccia Tornado sfreccia sull’Hindu Kush, poi sorvola quel cuneo di territorio afgano che si infila nel cuore dell’Asia, costeggiando il Pachistan fino a toccare la Cina.

È a quasi 5 mila metri d’altezza, ma riesce a scrutare ogni dettaglio: sotto le ali non ci sono bombe, ma una sorta di robot spia. Mette a fuoco i suoi bersagli, li ingrandisce e poi li segue. Mentre l’aereo continua a correre, lanciato a oltre mille chilometri l’ora, il sensore resta incollato alla sua preda: la pedina, passo dopo passo. Nell’oscurità totale l’uomo che sta lavorando in modo sospetto sotto un ponte della Ring Road, la strada che circolarmente unisce tutte le città afgane, non sa di essere inquadrato nell’obiettivo a infrarossi del pilota. Solo molti secondi dopo, l’attentatore sente il rumore del jet: teme di essere stato scoperto, salta su una moto e scappa. Inutile inseguirlo. Ma la sua foto è un’informazione vitale per il convoglio che all’alba dovrà attraversare quel ponte: verificheranno che il visitatore notturno non abbia lasciato trappole esplosive.

È questo il volto del conflitto afgano: apparati ipertecnologici contro guerriglieri spesso solitari, armi da guerre stellari contro ordigni letteralmente improvvisati usando vetusti proiettili sovietici e micce da spingarda. E il modo migliore di capire cosa succede è quello di starne lontani. Ossia volare alto. Come fanno i due caccia Tornado italiani, che con il loro robot spia sono diventati indispensabili: tutti gli alleati della Nato li invocano. Ogni giorno vengono fatti decollare dal comando di Kabul e setacciano fino a 50 obiettivi. Sono foto impressionanti, tridimensionali, che individuano una piccola antenna satellitare o un carretto: evidenziano il calore del motore di un camion appena parcheggiato dopo un viaggio o nascosto in fretta nel tentativo di sfuggire agli occhi dei caccia. Nella base di Mazar-I-Sharif, nel nord-ovest del Paese, gli specialisti italiani lavorano senza sosta per analizzare quelle immagini, distinguendo i covi dei talebani dalle stalle, le scuole coraniche dove spesso si formano i kamikaze dalle fattorie, i magazzini dei contadini dai depositi dell’oppio.

In tutto l’Afghanistan il raccolto del papavero sta terminando, poi ricomincerà la stagione della guerra. I talebani e i signori dell’eroina combatteranno per proteggere l’esportazione della droga. Con i loro proventi i guerriglieri fondamentalisti arruoleranno i contadini: ogni chilo di oppio permette di pagare dieci uomini fino all’inverno. "Sarà un’estate caldissima", sentenzia il generale Rosario Castellano, comandante della Folgore e di tutte le truppe Nato nell’Afghanistan sud-occidentale. I parà però non staranno ad aspettare gli attacchi: nel silenzio il governo italiano ha dispiegato un contingente senza precedenti, il più agguerrito dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Entro l’estate sul campo ci saranno oltre 3 mila soldati: di questi, 1.300 in prima linea – il triplo di operativi rispetto alla spedizione del governo Prodi – forze combattenti a diretto contatto con i talebani. Avranno una missione ad alto rischio: sbarrare la strada ai talebani che dalla regione di Kandahar si muovono verso ovest per sfuggire alle offensive americane. Per questo la Folgore ha creato una cintura di fortezze: castelli di sabbia che sembrano usciti dalle pagine del ‘Deserto dei Tartari’, con nomi che ricordano i romanzi di Kipling.

Tra i bastioni di Bala Baluk, Farah, Shouz, Qala E Now sono asserragliati 80 soldati italiani, che escono di pattuglia con l’esercito afgano e rischiano sempre di finire sotto assedio. Ci sono notti in cui i mortai pesanti sparano senza sosta per ostacolare i movimenti dei talebani intorno alle nostre postazioni. E in cui viene chiesto in continuazione l’intervento dei caccia americani per impedire che i parà finiscano intrappolati. Raid che quasi sempre si concludono ‘in bianco’, perché i miliziani scappano al solo rombo dei jet, ma che altre volte si trasformano in micidiali bombardamenti. Più a nord, nel distretto di Baghdis, sul confine turkmeno, un altro fortino è attualmente il teatro del confronto più duro. È la zona più calda, perché serve per esportare l’oppio. Due gruppi della Folgore, sempre affiancati dalla polizia afgana, partendo dal castello di Bala Murghab stanno potenziando la rete dei controlli. I talebani hanno colto subito il cambiamento. Prima hanno minacciato gli italiani: "Quanti morti volete riportare a casa?". Poi sono cominciati gli attentati: tre in una settimana. E un’incursione a pochi chilometri dal comando di Herat.

Via L’Espresso

 

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