Mar. Mar 28th, 2023
Tanto per gli Stati Uniti quanto per i paesi dell’Unione Europea la sicurezza delle fonti di approvvigionamento energetico è diventata negli ultimi anni una questione di primaria importanza.

La crescente domanda di energia legata allo sviluppo di alcuni stati emergenti, come l’India e la Cina, le incertezze ricorrenti sull’entità delle riserve ancora disponibili, il rischio costituito dal terrorismo e dalle guerre in alcune zone nevralgiche per la produzione o il trasporto delle materie prime energetiche, l’instabilità politica di molti paesi produttori, l’apparente uso «politico» delle esportazioni energetiche da parte di alcuni importanti produttori, come la Russia e infine il conseguente brusco rincaro del prezzo del petrolio, tutto questo contribuisce a diffondere preoccupazioni sulla sicurezza e sull’ affidabilità degli approvvigionamenti mettendo in risalto i rischi di un’eccessiva dipendenza nei confronti delle importazioni. Nel 2006 l’Unione Europea ha adottato l’Energy Policy for Europe, che cerca di dare nuovo impulso al mercato interno per l’energia, di favorire lo sviluppo delle energie alternative (senza dimenticare il ruolo dell’energia nucleare) e di adottare una politica comune nei confronti dei produttori, tra i quali spicca per importanza la Russia.
 
Tra le più urgenti priorità di medio -lungo periodo è al momento la questione energetica che suggerisce l’opportunità di un dialogo politico tra le due sponde dell’Atlantico che miri al coordinamento dei principali strumenti di politica energetica. Dalla spinta innovatrice della nuova Russia che si rialza e si impone con una consapevolezza del passato e con una nuova progettualità politica imperiale, decisa a riprendersi il suo posto nella storia, può nascere un nuovo assetto geopolitico. Di qui l’intricata e nebulosa la rete di relazioni, conflitti e accadimenti che si sviluppano sulla piattaforma eurasiatica tra Federazione Russa, Comunità Stati Indipendenti (CSI) e altri Paesi di dimensioni e peso politico specifico differenti. Putin, con il suo operato, ha fatto in modo che non scattasse il perverso “effetto domino” indipendentista, a partire dal Caucaso del Nord con Cecenia e Dagestan quali trampolino di lancio di spinte disgregatrici gravissime in termini di stabilità e sviluppo. La Russia è particolarmente impegnata nella stabilizzazione dei suoi confini meridionali e nella riorganizzazione di una sfera di influenza politico-economica sugli Stati confinanti, nel respingere un certo terrorismo islamista sorretto dai suoi nemici atlantici e nel consolidare il suo ruolo di distributore e produttore di greggio e gas. La questione del Caucaso vede i russi schierati a difesa di una propria legittimità territoriale che l’Occidente ignora, postosi com’è, in certa diplomazia e nella disinformazione, sulla linea propagandistica atlantica e consapevolmente o non consapevolmente in appoggio ai criminali atti terroristici ceceni.
 
E poi c’è il ruolo della CSI, della quale alcuni membri sono sotto l’influenza occidentale, come il gruppo GUAM composto da Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbajdzan, e Moldova, da tempo nelle mire della Nato, fermamente decisa ad allargare il suo raggio di azione; l’UE punta, da parte sua, sui progetti TRACECA (Transport Corridor Europe – Caucasus – Central Asia) e INOGATE (Interstate Oil and Gas Transport to Europe), relativi alla costruzione di grandi vie di comunicazione stradali e ferroviarie e al trasporto di petrolio e gas tra Asia ed Europa relativamente alla zona del Caspio, del Caucaso e del Mar Nero. Si affacciano come due rivali Turchia e Iran anche in considerazione del loro essere due modelli alternativi nell’area, essendo la prima politicamente laico –islamico – moderata a maggioranza sunnita e ponte con l’Occidente, il secondo un regime teocratico a base sciita. La Turchia, quindi, come cerniera strategica anche tra Mediterraneo e Vicino Oriente, e crocevia di relazioni e interessi della Russia, degli Stati Uniti e di Israele con i quali da tempo si muove in sintonia, e dei fondamentalisti islamici, tanto più che i turchi per anni hanno finanziato gli indipendentisti ceceni e ospitano sul proprio suolo una comunità di circa tre milioni di individui di origine cecena – circassa – abhaza.
 
L’Azerbajdzan, che ricopre anche un ruolo particolare, con una fortissima componente turca e vicinissima all’Anatolia, su cui si proiettano le mire di Russia, Turchia ed Iran. I confini meridionali russi ed il continente asiatico costituiscono per gli Stati Uniti il terreno principale su cui esercitare le proprie aspirazioni di influenza mondiale e su cui dispiegare forze di ogni tipo, finanziarie o terroristiche che siano. È chiaro che dopo la disgregazione dell’Urss gli americani abbiano individuato in quelle regioni territori di conquista che necessitano di un lavoro continuo di azione e revisione in grado di scuotere gli assetti, frammentare e di qui controllare, puntando sul peso dei grandi gruppi finanziari, delle multinazionali, che poi rappresentano i reali padroni della macchina mediatica e bellica statunitense e più in generale del mondo globalizzato. Quindi resta prioritario impedire il sorgere di attori regionali pericolosi e che possano imporre oltre misura agli USA di dover fare i conti con loro. L’area del Caucaso e del Caspio, ricca di giacimenti di idrocarburi e di Paesi coercibili con specifiche manovre politico-economiche, è destinata, quindi, a produrre effetti non solo continentali ma sicuramente internazionali, tenendo conto che si misurano strategicamente grandi potenze, come appunto USA e Russia, potenze regionali come Turchia e Iran, nonché altri Paesi importatori o esportatori.
 
Basti pensare che la maggior parte dei giacimenti del Caspio è localizzata off-shore nella parte nord-ovest e a nord di Baku verso la penisola di Asperon, il che ha dato luogo ad una controversia giuridica e politica che tutt’ora può essere rimessa in moto circa le acque territoriali. Cina, India e Russia non si trovano solo nella condizione di influenzare le aree “di competenza”, ma sono destinate sempre più a pesare direttamente o di riflesso sulle stesse dinamiche ormai sempre più internazionalizzate del sistema moderno. Sulle repubbliche caucasiche la Russia interpreta la sua influenza come una naturale predisposizione geopolitica dettata da contingenze storiche e vicinanza geografica, come del resto dimostra il fatto che le loro principali infrastrutture e vie di comunicazione ed energetiche sono parte integrante di un sistema che collega gli Stati satelliti alla potenza di riferimento. Ma la fragilità di queste giovani repubbliche è fortemente alimentata dalla necessità di capitali stranieri e specificatamente di quelli delle compagnie petrolifere, il che dimostra quanto l’assetto geopolitico dell’area si giochi su una netta sproporzione intercorrente tra dimensioni geografiche, peso delle forze e conseguenze internazionali.
 
La politica di isolazionismo antirussa di matrice statunitense, così come una nuova politica di potenza della Russia stessa, passano per strumenti imprescindibili che simboleggiano il collegamento che intercorre tra i vari soggetti sulla scena: gli oleodotti e i gasdotti. Il loro percorso, difatti, di quelli che ci sono e soprattutto di quelli che vedranno la luce, disegnano abbastanza chiaramente le direttrici di alleanze o comunque di convergenze che maturano tra i vari Paesi, e la stessa Europa ne è decisamente coinvolta. A guida statunitense, la direzione occidentale sin qui tenuta ha mirato ad evitare percorsi che toccassero i territori russi, con l’obiettivo palese di mettere fuori gioco la Russia mediante il controllo dei corridoi strategici tra Asia centrale ed Europa da parte delle multinazionali angloamericane e mediante un processo di rafforzamento e assoggettamento dei Paesi ex-sovietici, così da sottrarre questi al loro storico ruolo di interlocutori di Mosca. In siffatta situazione, i russi hanno un potente strumento diplomatico-energetico, la Gazprom. Questa contende ai Paesi europei in sintonia atlantica e ai Paesi nell’area del Caspio le fonti di approvvigionamento. Solo da poco l’Azerbajdzan è un esportatore di gas, avendo fino al 2006 importatolo solo dalla Russia.
 
In virtù dello sfruttamento dei giacimenti off-shore del Caspio è stato costruito un gasdotto diretto alla Turchia in parallelo all’oleodotto Baku – Tblisi – Ceyhan, sicché nella regione gli unici ad avere un effettivo sbocco al mercato europeo sono proprio gli azeri. Il più importante produttore è il Turkmenistan ed è vincolato a fondamentali gasdotti che passano in territorio russo e per cui Gazprom ne gestisce l’accesso del gas all’Europa, la formazione del prezzo di vendita e la l’individuazione dei Paesi importatori. Il Kazakistan è in una situazione analoga, ma in ruolo sul piano dei rifornimenti ancora non funzionante appieno, benché faccia parte dei nuovi progetti concorrenziali a quelli russi. Tra questi, vi è quello Nabucco un gasdotto di 3.300 km che dal Caspio giunga all’Europa evitando la Russia. L’Ue lo sostiene e ne parteciperanno alla realizzazione l’ungherese Mol, il romeno Transgaz, il bulgaro Bulgargaz e il turco Botas. Il gasdotto Nabucco convoglierà a partire dal 2010 il gas proveniente dall’area del Caspio e collegherà l’Europa alla regione Iraniana del Caspio, da cui entro il 2025 dovrebbe provenire il 15% circa delle forniture di gas all’Unione Europea. Vi è poi il progetto del gasdotto Georgia – Ucraina – Ue (detto White Stream), pure previsto per aggirare i russi, attraversando la Georgia sulla linea Shakh Deniz-Baku-Tblisi-Supsa e poi intercorrendo il Mar Nero dal porto georgiano di Supsa al porto ucraino di Feodossia in Crimea e da qui ai territori dell’Ue, in particolare Polonia, Lituania e Slovacchia. Tuttavia, ipotizzando un controllo dei gasdotti ucraini da parte di Gazprom, ci sarebbe l’alternativa di un collegamento col porto romeno di Costanza a cui lavorano il britannico “Pipeline System Engineering” e l’americano “Radon & Ishizumi.
 
Si aggiunge il progetto Nord Stream, che prevede un ampia fornitura di gas all’Europa per il 2013 mediante una struttura sottomarina nel Baltico che taglia decisamente fuori l’Ucraina, la Polonia e i Paesi baltici collegando Russia e Germania. Su tutti protestano i neo occidentali polacchi, che accusano la Russia di “terrorismo energetico” e invitano gli europei all’edificazione di una “Nato dell’energia”, evidentemente bramosi di alimentare fittizie speranze di sovranità. E’ chiaro che il Nord Stream è un significativo spartiacque nelle vicende geopolitiche, giacché segna una rottura tra “Vecchia Europa” e “Nuova Europa” e sancisce l’imprescindibilità dell’Europa dal gigante russo, al di là delle irrealistiche posizioni assunte nelle centrali di comando atlantiche. Oltre al controllo della rete petrolifera serba, è stato perfezionato un altro colpo da parte della Russia, con l’inglobamento della Bulgaria nel progetto italo – russo South Stream, che è un altro gasdotto, il quale giungerà in Europa attraversando il Mar Nero e il territorio bulgaro appunto, anche questo scavalcando quello ucraino, e partendo nel suo tratto sottomarino dalla costa russa di Beregovaja a quella bulgara di Varna.
 
Dovrebbe esserci una ramificazione da qui, con una via verso Nord-Ovest, che porti a Romania, Ungheria, Rep. Ceca, Austria e Nord Italia e con un’altra verso Sud-Ovest che porti a Grecia, Albania e Sud Italia. Si tratta, dunque, di una mossa importante anche per l’Eni come partner strategico di Gazprom e per l’Italia stessa, che anche nel campo degli approvvigionamenti energetici evidenzia vuoti storici. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha sottolineato, la Russia applica una politica di controllo statale delle risorse energetiche che controbilancia la concentrazione di alta tecnologia nelle mani delle grosse compagnie transazionali private. E lo fa muovendosi secondo un’azione di contiguità ai suoi territori innanzitutto, una contiguità dettata dalla geopolitica stessa anche su altri livelli. Mosca è impegnata, difatti, nel mantenimento del suo peso naturale anche verso l’Asia centrale, in direzione delle repubbliche ex-sovietiche di Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, fronteggiando un insidioso Islam militante che si nutre nei commerci illegali e dei finanziamenti americani. Il Tagikistan, per esempio, è un punto nevralgico nello scontro con la guerriglia islamica, tanto che gli stessi dirigenti hanno richiesto un intervento russo.
 
A tutt’oggi gli ambienti militari russi reputano il fronte tagiko, già base “eurasiatica” russa, un “secondo Afghanistan”, un bastione irrinunciabile ai fini del mantenimento delle posizioni contro l’estremismo islamista. Per di più, i tagiki popolano anche le regioni settentrionali del territorio afghano, ove i russi mirano ovviamente a fare il loro gioco di contrappeso all’infiltrazione occidentale. Un’altra pedina delicata è quella del Kirghizistan, dove negli ultimi anni le ONG statunitensi stanno cercando di portare un po’ di democrazia atlantica in parallelo ai sommovimenti di bande criminali della stessa matrice. La classe dirigente, che pure è tacciabile di complicità con gli americani specie per il passato, ha negli ultimi anni riconvertito il suo operato in senso più filo-russo, ritrovandosi però a dover gestire una situazione in cui due basi militari, una russa a Kant e una statunitense, si distanziano solo per una ventina di chilometri. Chi soffia sul fuoco sa che il Kirghizistan è multietnico, ma spingere le etnie al massacro in stile balcanico sarebbe foriero di scenari poco controllabili, date le ripercussioni sui vicini.
 
Tra i quali pure l’Uzbekistan è una zona contesa, e il presidente Karimov si è fatto assoldare, perlomeno agli inizi, dagli USA nella politica-militare della “lotta al terrorismo”. Questo territorio è fondamentale, anzi centrale se ci riferiamo anche alla sua posizione nell’Asia, confinante con tutte le altre repubbliche e con l’Afghanistan, e se teniamo conto che costituisce un validissimo fattore di rilevamento della nuova competizione in atto tra Washington e Mosca. Anzi, ne è emblematico perché il gioco si conduce su più livelli e ricalca le varie forme di penetrazione nel sistema. L’Uzbekistan è ricco di storia, il più popoloso e con il più alto tasso di densità di abitanti nella regione. Sulla via della seta risplende di tesori di antiche città e di capolavori architettonici islamici. E i suoi abitanti sono un popolo molto fiero ed integro nella sua tradizione storico-culturale, difesa anche dalle minoranze presenti in altri Paesi circostanti, e questo è un dato da non sottovalutare relativamente alle spinte conflittuali che qualcuno vorrebbe innescare.
 
Nel suo sottosuolo albergano inesplorate vaste risorse di gas, e sul suo suolo traffica tantissima droga dall’Asia verso l’Europa. E poi, fatto non trascurare, ospita due basi americane. Una a Khanabad nel sud, l’altra a Koland a est. Khanabad è nevralgica, poiché detiene una copertura radar che arriva a comprendere il Medio Oriente e la base yankee di Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Non solo, è in sinergia con i sistemi radar della Nato, del Canada, della Siberia, dell’Artico, della Corea del Sud e della Thailandia; lì, sulla sponda meridionale russa, è un ponte verso Cina, Pakistan, India e Medio Oriente. Al centro dell’attenzione si innesta prioritariamente la parte occidentale, sul Mar Caspio, dove si snodano gli interessi delle maggiori compagnie petrolifere internazionali, tra cui l’Eni. Più in generale, comunque, esso presenta una conformazione geografica aspra di ostacolo e causa di ingenti investimenti per quanto riguarda la costruzione di gasdotti e di infrastrutture di vario tipo.
 
Lo sfruttamento degli idrocarburi kazaki è in una fase di evoluzione, ma la classe dirigente, non sembra abbia intenzione di svendere quanto di controllare, seppure si debba fare i conti con i nuovi ceti emergenti che guardano più a modelli occidentali. Negli ultimi anni, provengono sollecitazioni all’edificazione di un sistema di sinergie imperniato su più livelli tra la Russia e le Repubbliche dell’Asia centrale, in senso ampio sulla fascia eurasiatica, nella consapevolezza che gli assetti verso l’Europa da una parte e verso Cina e India dall’altra vanno variando e c’è necessità di inserirsi in maniera proficua, per dare stabilità. La “Shangai Cooperation Oraganization” (SCO), che è destinata a rivestire un ruolo sempre più decisivo. Il peso delle maggiori compagnie petrolifere e le scosse di destabilizzazione hanno, però, dei canali specifici in cui inserirsi, specie se si considerano gli intrecci variegati che intercorrono tra economia di mercato, dirigismo economico, corruzione, economia illegale e terrorismo. Le grandi masse di capitali dei gruppi di potere occidentali e particolarmente americani nonché della sempre presente e insidiosa mafia russa (i cui interessi per forza di cose si intrecciano), anche qui tra legalità, illegalità e criminalità, hanno un raggio di azione illimitato. Sono questo tipo di dinamiche geopolitiche ad imporre in questo scacchiere un “Big Game”.
 
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